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Dentro la Strada Novissima. Mostra al MAXXI

Curata da Paolo Portoghesi

7 December 2018 – 28 April 2019

MAXXI , Roma

In questi giorni al MAXXI con un riduttivo allestimento evocativo è ricordata la “Strada novissima” della Biennale d’architettura degli anni ’80, l’evento espositivo che inaugurò l’architettura postmoderna che aveva già ottenuto discreti consensi con la Piazza d’Italia a New Orleans (1978) di Charles Moore, o se vogliamo, ancora prima, con la Casa di Vanna Venturi (1964), di R. Venturi, a Filadelfia…

Quel padiglione fu un grande evento perché ufficializzava la rivalutazione dei concetti classici, tanto bistrattati dal modernismo, dando nuove certezze all’architettura.

Paolo Portoghesi, direttore del settore architettonico della Biennale di Venezia, organizzò “Presenza del passato”, dove riunì i maggiori architetti postmoderni mondiali del momento (come Robert Venturi, Charles Willard Moore, Hans Hollein, Frank Gehry, Ricardo Bofill, Robert Stern, Franco Purini, Oswald Mathias Ungers e Paul Kleihues), realizzando la “Strada Novissima” di venti facciate contigue. A parte, su una megastruttura galleggiante nella laguna, si poteva ammirare il “Teatro del mondo”di Aldo Rossi, secondo l’allestimento di Costantino Dardi; sicuramente quella di Portoghesi rimarrà nella storia come la più bella Biennale d’architettura di Venezia, peccato che questa mostra non restituisce nulla o quasi di tutto questo.

Un movimento o uno stile che aveva in Italia due punti di riferimento importanti: Paolo Portoghesi, del PSI, considerato da quel momento in poi un reazionario, e Aldo Rossi, legato al PCI, cioè alla forza egemone della cultura e quindi più accettato e osannato.

Furono anni ruggenti, che sembrava dovessero per davvero cambiare tutto quanto (fine delle ideologie, rivalutazione del liberalismo,ecc. non per nulla nel 1989 inizia la demolizione del muro di Berlino) ma contrariamente a quanto ci si aspettava, in Italia avvenne lo sconquasso totale. Mani pulite eliminò dalla scena politica il PSI che aveva fatto sua l’architettura postmoderna e lo stesso Paolo Portoghesi che era di questo partito fece una ritirata tattica tipo Aventino a Calcata, vicino Roma, dove ha una villa in un isolamento monastico. Aldo Rossi, mentre era all’apice del successo, muore nel 1997 in un incidente stradale a Milano, lasciando improvvisamente un vuoto mai colmato che contribuì al declino dell’architettura postmoderna. Lo stesso Francesco Moschini, uno dei maggiori sostenitori e diffusori romani dell’architettura postmoderna, forse anche per la chiusura della galleria A.A.M. di via del Vantaggio non poté più supportarlo.

In pochi anni l’architettura postmoderna si trovò a scomparire totalmente, e già negli anni ’90 il successo di un rinnovato Gehry in “Casa danzante” a Praga (1994-’96) e l’avvento di molti altri architetti tendenti al Decostruttivismo seppellirono definitivamente quello che sembrava essere un cambiamento epocale.

Chi potrà dimenticare le casette fatte come le cabine degli stabilimenti balneari, le banderuole sopra i tetti e le torrette a campanile, le colonne rifatte in forge ridicole: rimangono memorabili alcuni capitelli alla Botero veramente disgustosi, tutte fatte con colori improbabili, motivi ripetuti costantemente anche nell’arredo e nel design.

Un’estetica che aveva nell’assunto una presunzione di architettura tradizionale ma che a vederla dava una sensazione infantile, come se non si prendesse sul serio, questo specie in alcune deformazioni irrazionali, in tanti tetti a piramide anche quando se ne poteva fare a meno, in improbabili lucernai senza nessuna funzione senza contare quello a forma di gigantesco matitone proprio della Biennale, nei colori bizzarri e nelle banderuole piazzate dappertutto come nei giocattoli per bambini.

Rimangono tracce importanti di tale fenomeno come Jean-François Lyotard, filosofo che dette origine a tale corrente con l’opera La Condition postmoderne: rapport sur le savoir ( 1979), a cui, travisandolo, si è aggrappata tutta una sinistra che vedeva, come al solito alla “bastian contrario”, con diffidenza lo sviluppo tecnologico, con delle battaglie contro l’hi-tech, allora dirompente, memorabili: il divieto dell’uso dei cellulari quando ancora non erano nemmeno smartphone, il computer visto come arma dei padroni, internet come manipolatore e controllore di cervelli, la diffida dell’automazione che avrebbe prodotto pericolosissimi mostri ecc. ecc. Resta tutt’ora, in alcuni ambiti, la diffidenza verso la scienza e le tecnologie, questo per dire che ebbe degli effetti collaterali di non poco conto che per certi versi ancora permangono. In forme rimodulate in altri ideali le troviamo al giorno d’oggi in rivendicazioni di alternative di movimenti e di partiti tipo Cinquestelle.

Tante sono le opere ben fatte in architettura come: Sony Building (1984) di Philip Johnson a simboleggiare New York, Portland Public Service Building (1982) di Michael Graves in Oregon o quelle di Mario Botta uno degli architetti più prolifici del postmoderno ecc. Le stravaganze di Léon Krier e di tanti altri che seppur brevemente ne accettarono lo stile, come pure rimangono alcune boiate esemplari, memorabile è il cimitero di Civita Castellana (1985-‘92) di Massimiliano Fuksas, grande architetto che adesso vanta tutt’altro indirizzo culturale, il quale con materiali incompatibili con il luogo ha fatto erigere uno stretto percorso sospeso su dei ponticelli pericolanti, che collegano varie cabine tipo altane tutte in alluminio (alcune da sempre transennate perché inagibili) costituendo accidentalmente uno stranissimo quanto offensivo scenario. Involontariamente, questo manufatto, ora in disastroso degrado, è un vero monumento eretto come a suggellare la conclusione dell’architettura postmoderna nel posto giusto, il cimitero. Per chi volesse ragguagli su tale intervento architettonico, può parlare con gli abitanti del luogo, non ancora rassegnati, sono tuttora rimasti indignati perché si sentono oltraggiati nel loro sacro cimitero. Nella mostra, molto acritica e anche nostalgica che non aggiunge nulla di nuovo a quello che tutti sanno, s’intravede un breve scritto di Bruno Zevi che fa presente alcune perplessità espresse a suo tempo proprio per la Biennale degli anni ’80.   Si capisce che il polemico e a volte rabbioso Bruno Zevi prenda quasi di sguincio l’architettura postmoderna come se ne avesse un timore reverenziale, addossandole colpe inconsistenti come quella della rivalutazione del Razionalismo da lui stesso sdoganata ampiamente. Si capisce da questo breve scritto di Zevi che l’architettura postmoderna aveva le porte spalancate al successo senza ostacoli alcuni, così come effettivamente è stato, seppure limitatamente nel tempo.

Giovanni Lauricella