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Damien Hirst alla Galleria Borghese

Archeology Now

Curata da Mario Codognato, Anna Coliva e  Geraldine Leardi autori del catalogo

giugno – 7 novembre 2021

Damien Hirts con la mostra Archeology Now alla Galleria Borghese è di nuovo sulla bocca di tutti, e anche se lascia strascichi di polemiche a non finire, quello che rappresenta per l’arte contemporanea non ha bisogno delle mie definizioni: è un riconosciuto maestro del XX-XXI secolo, con un successo dovuto anche al meccanismo perverso delle avversioni che provoca.

Archeology Now, questo il titolo della mostra che ne prefigura il contenuto, è il proseguo delle due mostre dallo stesso titolo, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, avvenute contemporaneamente a Venezia nel 2017 in appositi spazi dedicati di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, dove le opere esposte dovevano apparire come relitti di un antico naufragio ripescati da un vascello affondato.

Se  la narrativa invero un po’ cinematografica che giustificava quella coppia di mostre era abbastanza credibile, questa volta le stesse opere messe in un luogo deputato ai nostri capolavori dal Rinascimento sino agli inizi dell’800 sa di confronto, e non di dialogo, come invece lo hanno definito gli organizzatori.

E di fatto il significato dato a Archeology Now è comprensibile se le opere stanno in uno spazio espositivo dedicato esclusivamente a Damien Hirst; altrimenti bisogna considerarle insieme alle altre, peraltro già presenti storicamente nella Galleria Borghese di cui rappresentano il vanto. In questo caso tutto cambia, non è più la mostra di Venezia, ma un’altra che non può avere lo stesso significato.

L’imitazione e il vero, il falso e l’originale, la copia e l’autentico: questo emerge dalla mostra Archeology Now; non c’è margine d’interpretazione, cari curatori; non c’è dialogo, come viceversa c’era altre volte, quando alla Galleria Borghese hanno esposto artisti con opere totalmente contemporanee.

Se esponi un busto di un antico romano fatto recentemente, anche se mi ci metti i coralli, le spugne e tutti i depositi che il tempo lascia nei fondali marini, fai la cosiddetta patacca, la sòla. Le croste poi le trovi dagli antiquari fraudolenti che tentano di ingannare il turista, ma non ci fai una mostra.

Il finto è finto, punto e basta: può essere del miglior artista del mondo ma l’autenticità non può essere messa in discussione. Questa è, secondo me, la pecca della mostra che doveva essere, caso mai, fatta al MAXXI, dove il significato che era stato partorito a Venezia sarebbe rimasto inalterato.

Volendo, ma non era l’intenzione né dell’artista né degli organizzatori, il messaggio poteva essere una critica alle falsità correnti nella società d’oggi, quella dei noti esperti televisivi che tra gaffe e errori non ammettono mai che non sanno niente.

Perciò la mostra è emblematica del periodo che attraversiamo: quello dei saputelli dai curriculum corredati di titoli farlocchi, degli “opinionisti” che altro non sono che quelli della cricca di potere che pretendono imbonirci, dei finti borghesi che con la loro professionalità ostentata ci dicono cos’è il mondo.

Sì, ammettiamolo: è un triste naufragio.

Di tutt’altro avviso sono alcune opere realizzate in oro e altri materiali preziosi, sicuramente realizzate per ingraziarsi i facoltosi collezionisti, così riuscendo in un marketing oculato.

Prada sarà contenta ….